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Info Armstrong: Sì, mi dopavo Senza non si può vincere

mariomoskau

DEB König
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Armstrong: Sì, mi dopavo Senza non si può vincere

Sconvolgente confessione del ciclista americano: «Confesso tutto ma non ho costretto nessuno. Per me trasfusioni ed epo erano come gonfiare i tubolari o riempire d'acqua le borracce»

NEW YORK (STATI UNITI) - Sì, sì e sì: Lance Armstrong ha ammesso il doping per arrivare primo nei suoi sette Tour de France, "altrimenti a quell'epoca sarebbe stato impossibile vincere". Ma l'ex campione in disgrazia ha proclamato di aver mai ordinato a nessuno di seguire il suo esempio. "Non ho inventato il doping ma non l'ho fermato", ha detto il texano a Oprah Winfrey. Tanti peccati di omissione nell'ultima, più difficile tappa in salita per il conquistatore dei Pirenei. Il doping, quando lui gareggiava, era endemico, faceva parte di una cultura. "Ora sto cominciando a capire. Vedo la rabbia della gente. Oggi ho finito di mentire", ha detto l'ex campione in disgrazia nel confessionale della sacerdotessa dei talk show, dietro le quinte gli avvocati in agguato. Scarse emozioni e niente lacrime anche se Armstrong, a cui ieri il Cio ha tolto la medaglia di bronzo della prova su strada di Sidney 2000, si è ripromesso di "passare il resto della sua vita a scusarsi e a cercare di riconquistare la fiducia del pubblico". Ma poi, al polso il bracciale giallo della sua fondazione antricancro Livestrong, l'ex ciclista ha detto che all'epoca non pensava di "barare" quando usava il suo cocktail preferito: "Epo, ma non molto, trasfusioni di sangue e testosterone". Incredibile anche quando Armstrong ha risposto così in riferimento al doping: «Per me le trasfusioni e l'epo erano come gonfiare i tubolari o riempire d'acqua le borracce». Frasi che lasciano senza fiato.

INTERVISTA SHOW - L'intervista, dopo l'autunno caldo che ha visto Armstrong spogliato delle sette vittorie ai Tour de France, aveva una pista altissima: non solo la prospettiva di tornare alle gare per la quale è necessaria l'amnistia dell'Usada, ma per Armstrong il vero rischio è di giocarsi una larga fetta della sua fortuna valutata a oltre cento milioni di dollari in azioni legali di risarcimento. L'ex campione ha categoricamente smentito di essersi dopato dopo il ritorno sulle scene nel 2009 e 2010, una decisione che adesso rimpiange: "Non sarebbe successo nulla altrimenti". E in ogni caso, era tutto finito nel 2005. L'intervista di cui è andata in onda la prima puntata (la seconda domani) era un terreno minato. Armstrong ha ripetutamente negato di aver intimidito i suoi compagni di squadra: una smentita implicita del rapporto dell'Usada che in ottobre gli ha contestato di esser stato al centro del "più sofisticato programma di doping della storia". Quanto al medico italiano Michele Ferrari, accusato dall'Usada di esser stato il cervello dello schema, l'ex campione lo ha definito "una brava persona". Non è comunque il suo lavoro quello di "ripulire il ciclismo": Armstrong si è detto pronto a presentarsi davanti a una commissione "verità e riconciliazione" dell'agenzia antidoping, in vista di una eventuale amnistia del bando a vita dalle gare: "Se fosse creata, sarei il primo a andarci".

LA REAZIONE DELL'UCI - L'Unione Ciclistica Internazionale accoglie con favore le ammissioni di colpa di Lance Armstrong. "L'UCI si compiace della decisione di Lance Armstrong di fare finalmente pulizia e di confessare l'utilizzo di sostanze dopanti", si legge in una dichiarazione del presidente Pat McQuaid. "Prendiamo atto che Lance Armstrong ha espresso il desiderio di partecipare al processo di verità e riconciliazione, che noi accogliamo con favore - ha proseguito McQuaid -. È un importante passo avanti sulla lunga strada per riparare il danno che è stato causato al ciclismo e per ripristinare la fiducia in questo sport". Dopo la relazione shock pubblicata dal'Usata, la commissione antidoping americana, l'UCI aveva annullato tutti i risultato sportivi conseguiti da Armstrong a partire dal 1998, compresi i 7 Tour de France vinti. Nella dichiarazione l'UCI sottolinea vome "Lance Armstrong ha confermato che non vi era alcuna collusione tra la Federazione internazionale e il ciclista", che tutti "i controlli effettuati sono stati mimetizzati e che le donazioni effettuate in favore dell'UCI erano destinate a sostenere la lotta contro il doping".
cds
 
AW: Armstrong: Sì, mi dopavo Senza non si può vincere

Armstrong è caduto. Le verità di SimeoniL'ex ciclista


«Il doping era la norma, Pantani pagò per tutti. Denunciai il dottor Ferrari: Lance mi umiliò, il gruppo stava con lui. Ora va meglio, però...»

ROMA - Filippo Simeoni - lo ricordiamo a chi ha poca memoria - è un ex ciclista. Nel 2002 ammise davanti ai magistrati di aver fatto uso di doping e denunciò le pratiche illecite del dottor Ferrari, il guru di Lance Armstrong (e anche, recentemente, del marciatore Schwazer). Rivelazioni che poi hanno trovato riscontri concreti. Da allora, subì dal suo mondo ogni genere di umiliazione: fu trattato come un traditore, il finto campione americano gli impedì perfino di andare in fuga in una tappa del Tour mentre il gruppo intero, o quasi, lo infamava. E in Italia organizzatori compiacenti lo esclusero dal Giro nonostante avesse la maglia tricolore addosso.

Ieri Filippo Simeoni è venuto a trovarci in redazione e ha passato con noi due ore raccontandoci tutto: come e quanto ci si dopava, a quali costi, chi favoriva questo schifoso maneggio al quale si era colpevolmente adattato per inseguire il sogno di diventare corridore, lui che avrebbe potuto fare altro perché a scuola gli riconoscevano un’intelligenza brillante (e i libri gli hanno lasciato in dote, tra l’altro, la proprietà di linguaggio). A tratti ci ha sconvolto, a tratti commosso. Ci ha spiegato anche - per esempio - perché Pantani era il numero uno e lo sarebbe stato comunque, mentre Armstrong non lo era, indicandoci una data spartiacque: il 1999. Fino ad allora, tutti avevano gli stessi vantaggi dal doping; dopo, solo i più ricchi e protetti avevano accesso a prodotti evoluti e sofisticati.

Tra questi, ovviamente, Armstrong. «Pantani era un buono, non ha resistito all’umiliazione di essere indicato come il male del ciclismo: ha pagato per tutti». A Sezze, in provincia di Latina, Filippo Simeoni si alza ogni mattina alle sei e apre il suo bar-tabacchi. Quando la moglie va a dargli il cambio, lui si impegna con i bambini di una squadra di ciclismo del posto chiamata, non a caso, «Pirata»: vuole insegnare ai giovani a non ripetere gli sbagli della generazione sua e di Pantani, quegli errori dei quali per fortuna si è pentito presto. In questa storia ai confini della realtà, c’è un aspetto che più di ogni altro umilia il ciclismo e lo sport intero. Nemmeno adesso che il re di carta è caduto e che l’inganno è svelato ed è sotto gli occhi di tutti, Simeoni è stato chiamato da chicchessia perché porti la sua esperienza e le sue conoscenze al servizio di quel mondo dove ancora imperano i dirigenti dei tempi bui. Invece di far fuori chi ha convissuto con le truffe di Armstrong, il ciclismo continua a tenere ai margini l’uomo che per primo svelò l’inganno e che dovrebbe essere sventolato come una bandiera. Alla vergogna non c’è mai fine.

cds​
 
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